DOVEVA ACCADERE

Dissolvenza In Grigio

– Published on the occasion of the exhibition at Sergio Tossi Arte Contemporanea
Italy (6 – 14 June 1998)
Text by Alesandro Riva


La ricerca del soggetto è una cosa buona solo per i professioni. Quando mi siedo da quache parte, quasi involontariamente, senza cercare alcun soggetto, allora può darsi che si manifesti all’improvviso qualcosa che non stavo affatto cercando". Gerard Richter

Freddo. Un sole freddo, algido, glaciale, che riscalda flebilmente-molto flebilmente - le mie ossa nel campo. Perché sono in un campo. Un campo di concentramento nazista  subito dopo la liberazione. Soldati distribuiscono un pasto caldo a tutti. Volontari portano vestiti dalle case vicine. E poi c’è questo sole freddo che non vuole decidersi a scaldare.

Il mio viaggio parte da qui. Parte da questo campo-da questa umanità che ha l'aspetto di una qualsiasi umanità umiliata e ferita da settimane, mesi, e anni di barbarie e di sopraffazione.

Forse - dico forse - potrei essere anche altrove. Potrei essere in un campo profughi bosniaco durante la guerra nel novantaquattro.

Potrei essere tra i curdi deportati, o in un qualsiasi altro campo sorto sulle ferite delle mille piccole guerre dimenticate tra le pieghe del pianeta. Ma fermiamoci un momento. Non voglio rattristarvi. Oggi è un giorno di festa. Un giorno particolare. Per ciò . musica, maestro. E voi, preparatevi a danzare. Là in fondo, in quel l'angolo vicino alla cucina, una donna ha preso a cantare. Ha un vestito

nero, stretto (Azedine Alïa, se non mi sbaglio), e i capelli neri corti, tirati sulla nuca. La sua mano sinistra è appoggiata sul fianco, proprio sotto al seno. Canta un' aria - un' aria dell a Boheme. Dietro a lei, un'ombra si allarga sempre più sul muro. E' la sua ombra, o quella di una qualche segreta ossessione da cui non riesce a liberarsi?

Filippo Sciascia ha uno studio piccolo e invaso dal sole. Se lo andate a trovare in estate, o in primavera, vi offrira da bere su un poggiolo da cui si domina un'intera valle. E se ci andate con qualcuno del posto - qualche fiorentino purosangue che conosce palmo a palmo tutte le colline che circondano Firenze - loro due si metteranno immancabilmente a parlare di come quella valle sia leggermente diversa da quell'altra, nascosta dietro la collina che si vede laggiù in fondo, e di come il vento, qui, soffi in modo impercettibilmente più radente di quanto non soffi dall' altra parte della cresta. E voi, che non siete né fiorentini né tantomeno puro sangue ( o forse invece siete l'una cosa ma non l'altra, o viceversa), voi, dico, non vi farete incantare da quei discorsi, e guardarete la valle con gli stessi occhi - gli stessi identici occhi, curiosi e attenti a ogni minimo dettaglio - con cui avete guardato, poco prima, le centinaia di sogggetti diversi e apparentemente contrastanti che affollano le tele di Filippo. E come prima nello studio. cercherete un senso nascosto dietro a quello spettacolo. Cerchere te una soluzione - una soluzione qualsiasi - al­l'enigma di quella natura incantata e sorridente.

Ma prima o poi dovrete arrendervi al fatto che la soluzione, semplicemente, non esiste. Perché la soluzione è già nell'enigma: e la forza dell a natura, come quella dell'arte, risiede proprio nell' enigma in quell' enigma inesplicabile che ci fa guardare con ammirazione, con stupore, persino con malcelato fastidio, a volte, per l'eccessivo carico di mistero che Ii avvolge, ai lavori dei migliori artisti. Nel caso di Filip­po Sciascia, il mistero resta intanto. Segreto, impenetrabile, come accade con certe vecchie foto tratte da una copia sgualcita del National Geographic, di fronte alle qua Ii ci chiediamo se per caso il fotografo fosse un professionista, un letterato o soltanto un viaggiatore di passaggio, e che rapporto abbia mai avuto con la gente che ha fotografato, con i luo ghi che ha visitato, con le chiese e gli animali e il cielo che ha visto scorrere, come tante possibili metafore del mondo, sotto al suo sguardo in­quieto.

Sono ancora in viaggio. Sono in viaggio su uń autostrada deserta schiacciata dal sole d'agosto. Fa caldo. Caldo da far schiattare i ratti, e sole dappertutto, che riverbera su ogni fottuta superficie. Là in fondo, all’orizzonte, un’alone di pozzanghera bagnata – l’eterno miraggio, segno che l’estate è davvero arrivata. D’un tratto, una serie di immagini si affolano nella mia testa. Sono immagini che ho visto -  o che forse credo di avare visto negl’ infiniti documentari e album e

Calendari che hanno affolata la mia infanzia. Sono immagini caotiche, evanescenti, che la mia mente non fa in tempo a impressioni, altri flash back di chissà quele alba del mondo – o del mio mondo. Provo a fermarle così come mi appaiono davanti agli occhi (ma so già, e ne soffro, che non riuscirò a rendere che un labile bran dello d'impressione di quello che sto davvero provando in questo momento): il volto di una ragazza sotto la doccia (concentrata, attenta, quasi zen nella sua aria di assoluta e calma imperturbabilita); un'estate in campagna, con gli alberi sfuocati che si alzano verdechiaro nell'aria del mattino, e sul ciglio della strada quattro figure - forse bambini, o folletti, o ragazze, chissà - che mostrano i loro buffi e candidi sederi all' obiettivo, o forse solo al mio ricordo, o alla mia immaginazione; una corsa di cavalli, vista da sotto la terza staccionata partendo da sinistra, nel momento in cui gli ultimi tre fantini stanno saltando (poi la polvere sollevata dagli zoccoli copre ogni cosa, e l'immagine sfuma, in dissolvenza); due bufali che pascolano tranquilli e indisturbati in una qualsiasi prateria -lontano, il vagito di qualche strana bestia (uc cello o roditore, non so), e il suono del vento, che soffia intermittente; le gambe di mia moglie (o di mia madre?) allo sbarco dalla nave, ad Adis Habeba nel 1929 (fotografia in giallita, presa di scorcio, o forse tagliata a metà dal negativo); Laura in cinta, che accenna un'aria e un passo di danza nel giardino della casa in campagna vicino a Bolgheri, nel '73; un bacio appassionato, liquido, pastoso - non so più dire se a darlo ero io, o qualcun altro (e forse, in fondo, non ha più grande importanza, dal momento che non me n'è rimasto che un vago ricordo sbiadito, e non so nulla del sapore che avesse la sua bocca quel giorno). Poi, all' improvviso, vengo distratto dalla mia folle rêverie. Sull'autostrada, di fronte a me, due mucche avanzano mollemente sull'asfalto, in fila indiana.

Camminano lente ma decise, puntando dritte verso chissà quale meta. Le supero veloce, con una leggera sterzata. Nello specchietto, le guardo proseguire la loro marcialonga, come se nulla al mondo potesse venire a disturbarle. Poi l'estate le avvolge nel suo caldo abbraccio. Presto anche loro, mi dico, finiranno nell'infinito inventario dei ricordi, trasformando si solo in una vaga e sfocata immagine -quell'ultima, vista di scorcio nello specchietto - che non saprò nemmeno più se avro sognato, o visto, o sol tanto immaginato.

Stanotte ho fatto un sogno. O forse, l'ho visto da qualche parte. C'era una donna che stirava. Una donna alta, slanciata, che stirava e sbuffava, fumando svelta una gitanes. Era vestita - o meglio, svestita - in modo strano: calzoncini corti neri, calzini bianchi e scarpe alte col tacco, nere; sul busto, appena un reggiseno bianco. lo la guardavo - la spiavo - da dietro un muro basso del soggiorno. Tra me lei, con la cadenza lenta e solenne che hanno solo i simboli, o gli archetipi, passeggiava, indolente, una grossa tigre bianca e rossa. Per un momento, per un momento soltanto, quella scena irreale mi pareva nient' altro che la condensazione del mio tempo - tutti i mesi e gl i anni trascorsi tra queste quattro mura assieme a lei; per un momento, quella grossa, lenta tigre non mi sembrava che un simbolo, un simbolo qualsiasi del tempo che scorreva, li in mezzo a noi, lento e inesorabile, eppure stranamente prossimo, vicino, familiare. E forse quell'intera scena - lei che stirava, come in un romanzetto ottocentesco

(o piuttosto come in Osborne - io il Jimmy Porter di Ricorda con rabbia, che leggevo il giornale e parlavo d' arte e della vita mentre lei stirava), quell’intera scena, dicevo,altro non davvero era che un qualche simbolo inspiegabile dei nostri lunghi giorni trascorsi assieme - a condividere lunghi silenzi e lunghi discorsi, e lunghi pranzi, lunghi lavori - in breve, un infinito accavallarsi di ore e giorni e tempo della nostra breve vita.

"Ogni momento della vita può diventare la scena iniziale di un film, dipende solo dall'importanza che gli si attribuisce". Ho trovato questa frase in uno scritto di Edgar Reitz, iI regista di Heimat, che racconta di come, per anni, avesse anche tenuto una sorta di catalogo di immagini, come tanti, possibili incipit di suoi future film - film che mai, poi, aveva avuto il senno o la follia di realizzare. E c'è forse davvero una poesia strana, difficilmente spiegabile con le parole, nell'immagine frammentaria di un momento -un'immagine qualsiasi, da quella che ci si rivela all'improvviso, come un'apparizione, mentre stiamo facendo qualcos'altro, a quella che ci compare davanti agli occhi sotto forma di sogno, o di ricordo - quasi facesse parte di un nostro interno, e segretissimo, catalogo di immagini mentali a cui possiamo, e dobbiamo, attingere in qualsiasi momento della nostra vita. C'è una forza strana, che emana dalla singola immagine che in un dato momento scegliamo, per qualche ragione che forse a noi stessi è ancora in parte oscura, di privilegiare in un modo tutto nostro che assume fatalmente il sapore del rito - si tratti del rito del ricordo, il cui valore è aumentato dal retroterra di significati che assume, per ognuno di noi, lo scorrere inesorabile del tempo, o del rito, inesplicabile, della pura rêverie, di quell'inspiegabife motore interno che è il sogno, la fantasticheria irrazionale e profetica che ci si rivela a volte nei momenti in cui il nostro mondo esterno è più fragile, piu aereo, piu aperto aIle intrusioni dell'inconscio e dell'irrazionale. Filippo Sciascia ha deciso di dipingere - o piu probabilmente ha solamente preso a farlo, naturalmente, senza forzature concettuali né impronte ideologiche, e senza porsi più di tanto il problema della discendenza o della vicinanza con certa pittura di ascendenza fotografica oggi, certo, molto (troppo) in voga - lavorando sulle immagini: sulle immagini che noi creiamo, ogni giorno, per ii mondo, e che il mondo, a sua volta ci restituisce, sotto forma di migliaia, di pixel, impazziti che vagano per I’etere nei diecimila e più canali televisivi che si affollano nell'etere, o che rimangono chiusi dentro le infinite videocamere sparse per il mondo, agitate farsescamente da milioni e milioni di turisti, perdigiorno, testimoni di nozze, dilettanti, amatori, amanti, voyuer, pornografi, filmaker, poeti, innamorati. Sciascia, con I suoi quadri, ha contribuito - e contribuisce a ogni quadro che passa - a strappare i milioni e milioni di immagini esistenti nel mondo alla loro anonimità, alla loro inutile e fa tua esistenza, restituendo, anche per un momento soltanto (ma di fatto, attraverso I' atto della pittura, per sempre), dignità alle immagini qualsiasi che si affollano nel nostro immaginario, nella nostra testa, nella nostra mentale e infinita videoteca.

by Alessandro Riva